Collana Entroterra

Nomade

Se il cittadino è legato a una città o a un quartiere, il nomade è legato alla strada e all’orizzonte.

Fabrizio Caramagna

Yerik ha un viso segnato dal freddo e dagli anni. Gli occhi appena si vedono, fessure quasi sempre socchiuse per proteggersi dal vento della steppa. Ha vissuto tutti i suoi 87 anni nella yurta, la tenda che i genitori gli hanno insegnato a montare e smontare. Una casa semplice e degna, fatta di assi di legno, pelli e pareti tappezzate di lana cotta, nella quale mi invita a bere un bicchiere di kumis, il latte di giumenta fermentato. Prima prega il suo Dio, presente in ogni elemento della natura sconfinata che circonda la tenda. Lo ringrazia di tutto, e specialmente di avergli regalato la gioia di un ospite. In Kazakistan non si viene solo per vedere qualcosa, ma per fare esperienza di qualcosa. Se vuoi capire i nomadi, ascolta i loro racconti. Yerik parla russo, ma non è la sua lingua. Per raccontare la sua vita e descrivere l’anima del suo popolo preferisce il kazako, un idioma diverso da quelli slavi, appartenente all’antico ceppo Turkic. “Көшпенділер - тынышсыздықтың балалары: олар әрқашан жаңа тәжірибеге шөлдейді”. “I nomadi sono figli dell’inquietudine: hanno sempre sete di nuove esperienze”. Mi ritrovo in questa idea di umanità, in questa ricerca incessante del nuovo. Da questa verità, dice Yerik, derivano glorie e tragedie della sua gente e di quelle che l’hanno preceduta. Tribù indomabili, resilienti e coraggiose; popoli abilissimi nei combattimenti a cavallo e nella caccia, ma anche eccellenti artigiani, come si capisce visitando il Museo Nazionale della Repubblica del Kazakistan, ad Astana, nel quale sono custodite ed esposte, fra i tanti tesori, anche collezioni di antichi monili di pregevole fattura.

La parola “koshy” in lingua locale non significa semplicemente muoversi da un luogo ad un altro, ma indica la vita stessa come movimento. Perché In Asia centrale viaggiare equivale a vivere. Qui, da sempre, la geografia è incerta e l’esistenza dei popoli segnata dal continuo peregrinare nella steppa senza fine. Nei bassipiani erbosi o ghiacciati che dominano il territorio dell’attuale Kazakistan, nono Paese al mondo per estensione, la storia ha visto milioni di anime in transito: a piedi, a cavallo, in treno. Carovane di genti, famiglie intere in viaggio. Si transita in terra ma anche nel cielo. In autunno e in primavera, milioni di uccelli migrano attraversando il Kazakistan. Da secoli, forse millenni, vanno o tornano da luoghi caldi. Scelgono il silenzio delle steppe kazake e la natura selvaggia di questo Paese per trascorrere un pezzo di vita. Qui, il muoversi senza sosta, dettato dall’alternarsi delle stagioni, è per tutti un codice esistenziale privo di alternative. Sostare troppo a lungo intimorisce. Bisogna rimettersi presto in cammino, o in volo. Comunque in viaggio. Stando fermi è difficile preservare la forma del proprio essere.

In queste latitudini, il bisogno di spazi aperti appartiene al codice genetico delle persone. Le città, oggi in grande crescita, sono arrivate dopo. Rappresentano l’espressione di una modernità prorompente e luccicante, arrampicata sugli edifici avveniristici di Astana o sulle pendici della catena montuosa del Tien Shan e delle sue meravigliose cime innevate, ai piedi delle quali sorge Almaty, la vecchia capitale, ancor oggi principale polo economico del Paese. Ma, prima delle moderne città, culture millenarie hanno tracciato i sentieri che solcano le valli punteggiate dall’azzurro dei laghi, oltre 40.000 in Kazakistan. L’azzurro dei laghi, del cielo e della bandiera.

L’intera vita, per il nomade, è metafora del viaggio, come lo sono il matrimonio e la morte, ultima tappa dell’esistenza terrena e principio di quella celeste. Tutto nell’Universo si muove, e dunque, nel pensiero del nomade, anche la vita dell’uomo deve seguire questo eterno “andare”. Ma, a differenza del moderno viaggiare, che ha uno sviluppo lineare, in questi spazi immensi dell’Asia centrale i nomadi hanno trascorso la vita in senso circolare. Di generazione in generazione, sono partiti e tornati, incessantemente, con l’idea che solo viaggiando si diventa ciò che si è, senza mai rimanere quelli di prima. Qui, nella steppa, viaggiatori di ogni tempo hanno vissuto avventure indimenticabili, lasciando tracce indelebili del loro passaggio. Qui si sono forgiate civiltà antichissime, risalenti al V e IV secolo a.C. La loro esistenza è testimoniata da tombe e cippi funerari, che sorgono fieri e solitari nelle vaste radure del Kazakistan orientale; le loro vicende sono narrate da immagini rupestri che raffigurano scene di caccia, di guerra e di migrazioni senza sosta. Anime mai quiete, che nei secoli hanno sfidato una natura spesso ostile; un intreccio di genti pazienti, che hanno imparato a distinguere i profumi della terra; a sopportare le sofferenze causate dalle scorrerie di altri popoli guerrieri, e, più di recente, le persecuzioni sovietiche. Di qui, per secoli, sono passati esploratori e condottieri, predoni, profeti di ogni culto e religione, cartografi e mercanti in viaggio da Occidente a Oriente e viceversa, instancabilmente, con le loro merci e i racconti di mondi lontani. In queste vastità, dove perfino le rocce temono il vento, si è consumata l’avventura dei cosiddetti “popoli della yurta”, dal nome della tenda nella quale abitavano, ancor oggi usata in alcuni nuclei rurali, specialmente in Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia. Secondo fonti classiche, soprattutto persiane e cinesi, questi popoli appartenevano ad un unico ceppo etnico, i Saka. Il nome deriverebbe dall’antica radice iranica sak-, “andare”, “errare, “vagare”¹. Mai nome di genti fu più adatto a descriverne l’anima. Un’unica koinè nomadica, per così dire, alla quale appartenevano, ad esempio, i Tocari, nominati da Strabone come “nomadi iranici”; o i Sarmati e gli Issedoni, fra le più antiche civiltà conosciute di nomadi equestri; ma anche i Massageti, noti per aver dato i natali a Tamiris, principessa-guerriera, una delle figure più rilevanti dell’epica centro-asiatica. A lei si ascrive l’uccisione di Ciro, grande sovrano di Persia, reo di averle fatto prigioniero il figlio, poi suicidatosi per la vergogna. Tamiris, resa immortale dalle narrazioni popolari, ma anche da una citazione dantesca sistemata nel canto XII del Purgatorio, troneggia sulla cima dell’Astana Opera, il più grande teatro dell’Asia centrale, disegnato da un architetto italiano, Paolo Desideri, ed inaugurato nel 2013.

Yerik è un nomade kazako, orgoglioso di esserlo. Egli è nato prima che nel suo Paese venissero scoperti immensi giacimenti di idrocarburi e di altri minerali: oltre a gas e petrolio, qui ci sono riserve di uranio, zinco, manganese, cromo. Yerik è nato prima che partisse la corsa all’oro nero. Lui si interessa poco del sottosuolo e dei suoi tesori: preferisce guardare il cielo. Contemplare l’orizzonte aperto. Questo vecchio kazako possiede una tenda e cento cavalli, le sue arti pastorizie, tappeti di lana cotta, il dolore inguaribile per la morte di un figlio e l’affetto dei dodici nipoti, che oggi vivono tutti in città. Ogni tanto vengono a trovarlo, cercando di convincerlo, con molto affetto e poco successo, a trasferirsi da loro. Lui li ascolta, perché rispetta il loro cammino; ma il suo dogma resta la libertà assoluta. Del resto, il nome stesso che porta, Yerik, in kazako più o meno significa “spirito libero”, quasi un destino. Una casa in mattoni non si può spostare; viverci sarebbe come accettare di legarsi ad un unico posto, rinunciando all’inquietudine del viaggio. Meglio di no. Meglio la yurta. Meglio le sere gelate nella steppa, con il suo orizzonte limpido e ininterrotto. Il culto di Tengri è il culto del Cielo Blu, lo Spirito Maestro celeste, l’Eterno, la cui casa è il cosmo visibile. Meglio addormentarsi guardando le stelle e svegliarsi sapendo che in ogni elemento della natura si nasconde un divino da scoprire, come insegna l’antica sapienza sciamanica, qui sopravvissuta agli attacchi della modernità. Questo nomade saggio porta grande rispetto anche alla morte, “perché la vita”, mi dice, “non è tutta nostra, è un prestito del quale dobbiamo essere degni”. Così, in pochi istanti, si capisce che l’aspirazione di questa gente, erede di generazioni vissute fra pericoli e minacce, in realtà non si esaurisce nell’ossessione di salvaguardare la propria esistenza dai pericoli e dall’insidia della morte; la tensione è quella a “rimettere sempre in circolo” la vita che si è ricevuta.

Yerik vive solo, ma non in solitudine. Morirà qui, ma, come lui dice, il suo spirito continuerà a vivere. Anche per questo, nutre profondo rispetto per la Natura. Questo nomade dalla pelle riarsa è consapevole del proprio posto nella vita, dell’esistenza del Bene e del Male, che “di continuo si combattono nel cuore dell’uomo”, mi dice. Yerik conosce il valore racchiuso nelle sue tradizioni. Il tempo gli interessa meno dello spazio. Non conosce la fretta, Yerik, e non ha senso chiedere se ha studiato. La sua cultura è fatta di migliaia di libri mai letti; la sua saggezza consiste nel sapere tante cose, ma soprattutto il loro perché. L’animo kazako è inquieto, come lui sostiene. Ed è inquieto perché nomade, sempre alla ricerca di nuove frontiere. Un animo guerriero, ma anche poetico, ispirato da una religiosità profonda. Il nomade cerca per trovare, e quando trova si rimette in cammino. Verso altri orizzonti, altri incontri, altre esperienze. Nel cuore del nomade, dice Yerik, ci sono tante domande.

Nella steppa, dove vive Yerik, le musiche accompagnano le preghiere e i versi, spesso cantati con la dombra, antico strumento musicale a due corde, e tramandati di tribù in tribù, di famiglia in famiglia, nei secoli. Le civiltà stanziali costruiscono edifici e opere grandiose. Ne sono testimonianza l’antico Egitto, la Roma imperiale o, più vicino a queste Regioni, l’India dell’era Moghul, la Samarcanda Di Tamerlano, o la a Bukhara della Transoxiana islamica. Il nomade, invece, esprime bellezza, e quindi cultura, nel canto e nella poesia, non nell’architettura destinata a durare in eterno, perché di eterno, per lui, c’è solo il viaggio e il racconto. Ne deriva che i templi più belli dell’Asia centrale non sono in Kazakistan, Paese fatto di nomadi. Ciononostante a Turkestan, nel sud, si trova il mausoleo del grande profeta Khoja Ahmed Yasawi, insigne maestro Sufi del XII° secolo, fondatore delle confraternite islamiche Yasawiyy. Voluto da Tamerlano nel 1389, il tempio divenne punto di riferimento per la religiosità locale e per chi, viaggiando, si fermava a pregare. Oggi è dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, e merita senz’altro una visita.

Nell’animo del popolo kazako l’idea di libertà è sopravvissuta a qualunque invasione, qualunque riforma (pacifica o violenta), qualunque regime politico e militare. Non a caso la bandiera nazionale raffigura l’azzurro del cielo, il Dio Tengri, e - sotto un sole dorato - un’aquila della steppa, animale sacro e simbolo di libertà fin dai tempi di Gengis Khan. Cultura e progresso sono intesi in Kazakistan come incontro e scambio di idee, di spiritualità diverse, di tradizioni che si arricchiscono l’una con l’altra, contribuendo alla vita comune.

Secondo Umberto Eco, una delle tragedie dell’uomo moderno è che “nessuno è più compagno di strada degli altri, ma antagonista di ciascuno”. In altre parole, competere è diventato più facile e logico che collaborare. Un pericoloso individualismo programmatico pervade la società e minaccia ogni forma di comunità, a partire dalla famiglia, che nella cultura kazaka rappresenta un ambito fondamentale di appartenenza e di crescita della persona. A differenza di altre culture, la radice nomade alla base della cultura kazaka trasmette ancora un “senso del noi”, e la consapevolezza che da soli – nella vita come nella steppa – non si possa andare molto lontano. Ma anche qui, come nel resto del mondo, affiora sempre più spesso la sensazione di spaesamento della modernità, capace di trasformare i problemi in drammi. Il nomade, per natura, tende a vivere nel tempo presente, e quindi, spesso, a disconoscere, o ad accettare con fatica, le logiche strutturate e progressive del mondo contemporaneo, che mira a calcolare tutto. L’animo nomade è sempre messo a dura prova dall’impegno a lungo termine; poiché il futuro è sempre incerto, tentare di programmarlo, o definirlo troppo, calcolando tutto, rischia di limitare la libertà di movimento che caratterizza il tempo presente.

Un proverbio recita: “Puoi portare via un kazako dal Kazakistan, ma non il Kazakistan dal kazako”.

I nipoti di Yerik non sono nomadi. Vivono in città, come la maggior parte dei loro coetanei. Si muovono in auto e navigano online. Uno, addirittura, ha fondato una Società che si occupa di Intelligenza Artificiale. Ma il “nomade” resta dentro di loro, come dentro tutti coloro che hanno lasciato il villaggio, o il Paese, alla ricerca di un nuovo destino. Alla scoperta di un altro tratto di steppa. Partendo per tornare. Viaggiando per scoprire, spinti verso il futuro dallo spirito inquieto degli antenati. Fieri della loro appartenenza, ospitali ovunque si trovino, certi che l’incontro con l’altro, chiunque sia, rappresenti sempre una forma di arricchimento per sé.