Latte e sangue 

di Francesco Annicchiarico 

 

Confuso con il buio dello sfondo, a prendere acqua in questa notte di catrame e
penitenza, Cannolicchio ha uno scatto all’indietro, per bestemmiare a qualcuno che
non c’è. Si accorge di essere solo, aggrappato a una Graziella tanto storta che pare
masticata. Si vergogna, ha fatto proprio un gesto da tossico.
È soltanto questo, adesso. Nemmeno lo vedreste, se non fosse per il rosso del
semaforo. Trasparente come un vetro al buio. Direste: qui non c’è nessuno. E se
riuscisse a vedersi anche lui, vi darebbe ragione.
Solo le mani scoperte, strette sul manubrio. Pende da un lato, con la punta del
piede si tiene l’equilibrio. Neanche il tempo di abbassare il sellino.
Ora che ricomincia a piovere, gli vengono in mente i bicchieri di un bar. Sbilenchi in
mano alla gente, e i camerieri che si affannano tra la folla per recuperarli. Poi dopo
la festa, quando dappertutto resta la prateria di vetri sbrecciati, sporchi, a riempirsi
di pioggia.
Lo cercano solo se non c’è più nessuno. Per serate come questa, per portare il
fuoco sulle spalle.
Il verde al semaforo lo tira su dalla melma dei pensieri. Il cuore rimbomba nella gola
come un tamburo. Le ciglia sbattono per sciacquarsi la visuale.
Con un colpo di bacino spinge giù il pedale di destra, per rimettersi in corsa.
Ha il fuoco sulle spalle.
Per ora è freddo, piove. Ma in un niente potrebbe scatenare le fiamme.
Avrebbe dovuto dire no? Non avrebbe potuto fare altro, non c’è altro da fare.
Chi è lui per decidere?
In questa città nessuno decide niente. Non si trova nessuno che abbia il coraggio di
seguire un’idea. Chi ha davvero qualcosa da dire, è sempre gente con le mani
occupate. Soldi, armi, manco fosse il Sudamerica. E tutti gli altri? Chi ascolta?
La gente gli fa schifo ed è un sentimento corrisposto.
Solo a pensarci, la rabbia guizza fino al cervello e i muscoli rispondono frenetici,
con due pedalate è già verso il centro città. È tutto chiuso, non gira nessuno.
Tutti quei bicchieri vuoti, i bar chiusi a quest’ora e un freddo assassino.


L’aria immobile e il perenne caldo. L’infinito nulla che ammorba la città, lui sente
solo questo, di notte o di giorno, estate e inverno. Ha la schiena liscia dal sudore, i
pantaloni incollati alle gambe bagnate, nemmeno fosse una sera africana, altro che
diluvio marzolino. Qualsiasi cosa, qualunque cosa pur di liberarsi del tempo. Non si
può escludere niente, nemmeno la morte.
Questo è la paranoia.
A Foggia c’è la paranoia, sobbolle in chiunque, come il bitume delle strade, poi
trabocca nei pestaggi davanti alle cantine, negli accoltellamenti casuali, nella
ferocia per un carrello del supermercato. Su tutto si abbatte la potenza furiosa di
questa lingua sgolata e scarnificata delle vocali, come un’arma di osso.
È ormai in centro, alza la testa e già vede il campanile della cattedrale. Passa
contromano sul porfido lucido di via Arpi, i sanpietrini gli rimandano le luci dei
lampioni, pochi, che gli indicano la strada.
La zona gli mette buonumore. Si è fatto bastare l’MD che gli hanno dato per non
cagarsi addosso, un pompino sorprendente e cinquanta euro per appiccare il fuoco
a una saracinesca di rione dei Preti. Si sente addirittura fortunato: c’è chi vorrebbe
esser qui al posto suo, con la schiena che sbanda per il peso della benzina.
Lui ne conosce parecchi. Che gli ripetono sempre le stesse cose: datti da fare, fatti
un giro, trovati un lavoro.
Altri lavori, come no. L’ultima volta, la fabbrica intera lo chiamava pisolo perché
l’avevano sgamato a dormire sui cartoni.
Poi, che volete, la paranoia. Come tutti, ha inghiottito anche lui. Non è colpa di
nessuno, è questo posto: ti toglie l’aria dai polmoni.
Ormai per lui è diventato tutto inaccessibile, tutto sempre chiuso. Nei locali ci vanno
solo i ragazzini, lui il suo tempo l’ha fatto. Pensate a lui come l’avanzo di una festa
finita vent’anni fa, un bicchiere vuoto rimasto sporco, un bicchiere.
Eccolo qua. Ossa e muscoli tenute insieme con l’inerzia, col filo dei nervi. E non gli
è rimasto altro da fare.
Guardatelo adesso.
Potrebbe avvampare in qualsiasi momento, nonostante il diluvio. Per ogni sigaretta
che accende e butta via, accende e butta via, preso dai pensieri ha dimenticato di
fumare.


In sella a questo disastro di bici, stremata dai tossici che ci sono saliti sopra.
Cos’altro potrebbe dirvi?
Pure se ci provasse, non gli dareste neanche retta. È come se fosse morto. E
allora, perché parlarvi?
Perché, per lui, noi siamo i morti e dei morti non si parla male. Si può dire solo la
verità.
La verità è questa: si sarebbe imbracato pure una bomba atomica, per il gusto di
annientarci tutti, tutti noi.
E pure questa città di merda. Farebbe come al mare, quando si cancella col gesto
di una mano.
Inventerebbe nuovi nomi per le cose, tutto moderno, facce nuove. Sarebbe giovane
per sempre.
Si vedrebbe persino il mare all’orizzonte, dal panorama del suo giudizio universale.
Ricostruire, chissà. Forse dopo.
Intanto la nuova città prende forma davanti ai suoi occhi.
Proprio qui, lungo i palazzi seicenteschi di via Arpi, le fontane del centro, i vicoli coi
macellai e la spazzatura ammonticchiata, gli scheletri di biciclette addossati ai
cassonetti, i muri ingialliti dalle luci dei lampioni. Pietra, pietra ovunque, croci di
chiese, edicole votive, effigi antiche di madonne e Gesù mai risorti, qualche albero
trapiantato dal Gargano che ingobbisce la strada e rende insormontabili i
marciapiedi.
Da qui comincerà la città nuova, con una forma nuova, la Nuova Foggia. Qui ci farà
un castello, una torre merlata per dare asilo ai miserabili, ai sopravvissuti degli anni
Novanta, quelli come lui che cercheranno il futuro nella città rinata. Tutti nuovi
italiani, nuovi foggiani.
Nomi nuovi per qualsiasi cosa. Aria, aria ovunque. Anche alla lingua, ci metterà le
vocali e finalmente chiunque potrà pronunciare le parole. Saranno parole sulla
bocca di tutti, anche dei muti, anche dei sordi che non potranno sentirla, così sarà.
Per sempre. Qui.
Cannolicchio.
Respira.


Le orecchie si riempiono di suoni. Un ciarlio continuo e armonioso, una lingua
nuova, elegante, con dei suoni alti, striduli, striduli…
Il cigolio del parafango ammaccato lo sveglia ancora e a stento si raddrizza. È vivo
per miracolo: lo zaino con la tanica stracolma gli pende tutto da un lato, proprio su
quello in cui stringe la sigaretta. Si accosta al marciapiede e si ferma per un attimo.
Non ricorda bene gli ultimi cinque minuti, crede di aver corso, credeva di essere
ancora sulla stessa strada di prima, e invece no. Tutto si muove velocissimo nella
sua testa, fino a trovare l’impatto con ciò che ha davanti agli occhi.
La chiesa, il campetto di calcio. Deve girare qui. Attento all’incrocio, non passa
nessuno.
Il semaforo giallo intermittente gli dà il ritmo della marcia. Respira più forte per
riprendere forze. Gli hanno detto di girare qui, la seconda a destra. Civico 59.
Non ti puoi sbagliare.
Infatti, non si sbaglia.
Si guarda intorno, una, due volte, ancora lo stesso movimento da tossico di prima.
Ma tanto non lo vede nessuno. La strada è quella giusta, rallenta, cerca il numero.
Lo trova. È qui, ci è davanti. Ma non è chiusa affatto, però, è tirata su a metà. E c’è
la luce di un neon che illumina questa che è un’officina, sembra un’officina. Non c’è
niente che lo confermi, non ci sono insegne fuori. C’è solo il calco di una scritta
adesiva, sullo stipite. Dice: Ferrament. L’ultima A si è persa, forse insieme agli
ultimi clienti.
Cannolicchio addossa la bici all’unico alberello del marciapiede di fronte. Poi si
avvicina, piano, anche per evitare che si riversi la benzina. Cerca di non essere
nello spettro visivo di chiunque sia dentro.
È accanto alla saracinesca, guarda dentro il locale, un forte odore di olio motore e
polvere, a strati, a croste. Su qualunque cosa. Pezzi di motori, enormi motori, forse
trattori. C’è la ruota di un trattore, in effetti. Poi un crick completamente sverniciato
dall’uso, molte chiavi inglesi sparpagliate su un bancale da lavoro, ricoperto di vinile
e gomma screpolata ovunque. Un vecchio calendario FIAT, giugno 1985, una
bionda con due pere gigantesche e lucide fissa tutti voluttuosamente.
È un meccanico.
Deve far saltare per aria la saracinesca di un vecchio meccanico.


Cannolicchio è chino per guardare sotto la linea della saracinesca, ma da una
stanzetta del soppalco, che lui non vede, sbuca fuori un uomo anziano. Si tira su la
lampo dei calzoni, si sistema la camicia e tira lo sciacquone. Il rumore improvviso
sbalza Cannolicchio verso l’alto. Sviene, battendo la testa contro la saracinesca,
con una forza che scatena un fracasso per tutto il quartiere.
Il vecchio è immobile. Quel tossico svenuto a terra è qui per lui. Non ha in mano
niente, solo quello zaino e un odore di nafta dilagante. Proprio ora.
Questa è la Società che viene a chiedermi i soldi, pensa. E ha ragione.
Cannolicchio è lì per questo.
In quel momento, realizza. Quel tossico è tutta grazia di Dio. L’ha mandato la
provvidenza, la madonna dei Sette Veli. Finalmente, a settantadue anni, una botta
di culo: lui, che voleva fottere l’assicurazione, soccorso dalla Società foggiana.
Il vecchio meccanico sente la forza salirgli dalle viscere. Tira Cannolicchio nella sua
officina, pallido, fradicio di piscio e benzina, coi piedi che sbucano dall’uscio.
Lì starà benissimo quando lo troveranno.
In fin dei conti, lui gli sta solo facendo un favore. Da ora in poi, Cannolicchio
diventerà un martire. Un santo il cui nome sarà sulla bocca di tutti.
Morto, come un eroe, ovviamente.
E chi potrà dire male di un morto?
Nessuno ne avrà il coraggio. Da morto troverà amici, donne che l’hanno amato,
figli, amanti. Qualcuno gli sarà persino debitore.
Lui gli sta solo facendo un favore.
Corre a tirar fuori le taniche dal bagno, rovescia il bidone dell’olio che si sparge
ovunque. Cannolicchio ci allaga dentro.
Il vecchio meccanico è fuori. Caccia dalla tasca un vecchio cerino, lo accende, lo
tira dentro. Tutto arde all'istante, e dalla luce nascono due nuovi martiri.

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